Capitello Ionico

Riferimento: S45064
Autore Agostino de Musi detto VENEZIANO
Anno: 1536
Misure: 190 x 120 mm
Non Disponibile

Riferimento: S45064
Autore Agostino de Musi detto VENEZIANO
Anno: 1536
Misure: 190 x 120 mm
Non Disponibile

Descrizione

Bulino, 1536, datato e monogrammato in lastra A.V. 1536.

Da un soggetto di Sebastiano Serlio.

Esemplare nel secondo stato (di quatto?), con l’aggiunta dell’imprint Ant. Sal. exc.

Magnifica prova, ricca di toni, impressa su carta vergata coeva, con margini, in perfetto stato di conservazione.

L’incisione appartiene ad una serie di nove tavole non numerate (Bartsch nn. 525-33) pubblicate per la prima volta nel 1528 - con un primo esempio di privilegio. Serlio supplicò le autorità veneziane per ottenere un privilegio per queste stampe nel 1528.

Tutte queste tavole portano le sue iniziali SB (Serlio Bolognese). Nel 1536, tornato a Roma, Agostino Veneziano realizzò una serie di copie di queste tavole, che poi vendette a Salamanca, il quale le rieditò aggiungendo il proprio nome alle tavole e una nuova sequenza di numerazione.

“Nel 1528 Agostino Veneziano dà alle stampe una serie di nove incisioni derivanti da disegni di Sebastino Serlio che ritraggono gli ordini architettonici Dorico, Ionico e Corinzio. Questa serie di incisioni nasce come base di un progetto editoriale ben più ampio: in un’istanza presentata al Senato di Venezia proprio nel 1528 Agostino Veneziano e il Serlio richiedono che gli venga concesso il privilegio per la stampa di una serie di incisioni raffiguranti i cinque ordini (con l’aggiunta del Tuscanico e del Composito), e «non solo li sopra ditti ordini, ma anchora intendemo stampare varij Edificii in perspicientia et altre varie cose antiche e dilettevoli a qualunque». Il privilegio venne concesso per dieci anni e le incisioni vennero date alle stampe dal 1528 con le sigle A.V. e S.B., firme di Agostino Veneziano e Sebastiano Serlio (Bolognese), tutte recanti l’indicazione dell’ordine ritratto «DORICO», «JONICO», «CORINTHIA». Le incisioni, da leggere a gruppi di tre, raffigurano basamento, capitello e trabeazione dei tre ordini. I soggetti ritratti non sembrano ricollegarsi ad edifici antichi ben riconoscibili, piuttosto sembrano essere derivati ed assemblati dai caratteri peculiari dei singoli ordini rintracciati negli antichi resti romani. Stampati per scopi prettamente “didattici” e non per indagini puramente archeologiche, per ammissione dello stesso Sebastino Serlio derivano dalle concezioni del suo maestro Baldassarre Peruzzi che aveva avviato una cultura architettonica “per immagini” libere dal contesto antiquario, una delle prime tracce che porterà alla formazione degli ampi trattati di teoria architettonica in cui si cimentarono molti grandi autori per tutto il XVI secolo. I fogli pubblicati in questo studio risalgono alla seconda edizione stampata da Antonio Salamanca datata 1536. Sulle opere, tutte siglate con la scritta «Ant. Sal. exc.», non è più rintracciabile la firma del Serlio nonché la scritta apposta sulla prima edizione «Cautum sit ne aliquis imprimat, ut privilegio constat» [Attenzione a non copiare in quanto coperto da privilegio]” (cfr. Marigliani, Lo splendore di Roma nell’Arte incisoria del Cinquecento).

L’opera è formalmente parte dello Speculum Romanae Magnificentiae, la prima iconografia della Roma antica. 

Lo Speculum ebbe origine nelle attività editoriali di Antonio Salamanca e Antonio Lafreri (Lafrery). Durante la loro carriera editoriale romana, i due editori - che hanno lavorato insieme tra il 1553 e il 1563 - hanno avviato la produzione di stampe di architettura, statuaria e vedutistica della città legate alla Roma antica e moderna. Le stampe potevano essere acquistate individualmente da turisti e collezionisti, ma venivano anche acquistate in gruppi più grandi che erano spesso legati insieme in un album. Nel 1573, Lafreri commissionò a questo scopo un frontespizio, dove compare per la prima volta il titolo Speculum Romanae Magnificentiae. Alla morte di Lafreri, due terzi delle lastre di rame esistenti andarono alla famiglia Duchetti (Claudio e Stefano), mentre un altro terzo fu distribuito tra diversi editori. Claudio Duchetti continuò l’attività editoriale, implementando le lastre dello Speculum con copie di quelle “perdute” nella divisione ereditaria, che fece incidere al milanese Amborgio Brambilla. Alla morte di Claudio (1585) le lastre furono cedute – dopo un breve periodo di pubblicazione degli eredi, in particolare nella figura di Giacomo Gherardi - a Giovanni Orlandi, che nel 1614 vendette la sua tipografia al fiammingo Hendrick van Schoel. Stefano Duchetti, al contrario, cedette le proprie matrici all’editore Paolo Graziani, che si associò con Pietro de Nobili; il fondo confluì nella tipografia De Rossi passando per le mani di editori come Marcello Clodio, Claudio Arbotti e Giovan Battista de Cavalleris. Il restante terzo di matrici della divisione Lafreri fu suddiviso e scisso tra diversi editori, in parte anche francesi: curioso vedere come alcune tavole vengano ristampate a Parigi da Francois Jollain alla metà del XVII secolo. Diverso percorso ebbero alcune lastre stampate da Antonio Salamanca nel suo primo periodo; attraverso il figlio Francesco, confluirono nella tipografia romana di Nicolas van Aelst. Altri editori che contribuirono allo Speculum furono i fratelli Michele e Francesco Tramezzino (autori di numerose lastre che confluirono in parte nella tipografia Lafreri), Tommaso Barlacchi, e Mario Cartaro, che fu l’esecutore testamentario del Lafreri, e stampò alcune lastre di derivazione. Per l’intaglio dei rami vennero chiamati a Roma e impiegati tutti i migliori incisori dell’epoca quali Nicola Beatrizet (Beatricetto), Enea Vico, Etienne Duperac, Ambrogio Brambilla e altri ancora.

Questo marasma e intreccio di editori, incisori e mercanti, il proliferare di botteghe calcografiche ed artigiani ha contribuito a creare il mito dello Speculum Romanae Magnificentiae, la più antica e importante iconografia della città eterna. Il primo studioso che ha cercato di analizzare sistematicamente la produzione a stampa delle tipografie romane del XVI secolo è stato Christian Hülsen, con il suo Das Speculum Romanae Magnificentiae des Antonio Lafreri del 1921. In epoca più recente, molto importanti sono stati gli studi di Peter Parshall (2006) Alessia Alberti (2010), Birte Rubach e Clemente Marigliani (2016). Le nostre schede sono elaborazioni ispirate principalmente da queste quattro pubblicazioni, integrate da commenti e correzioni per quanto non ci convince e ci è noto.  

Bibliografia

Marigliani, Lo splendore di Roma nell’Arte incisoria del Cinquecento (2016), n. II.54A/I; cfr. D. Woodward, Catalogue of watermarks in Italian printed maps 1540 – 1600 (1996); cfr. D. Howard, SS's Venetian copyrights, in “Burlington Magazine” CXV 1973, pp. 512-6; cfr. anche Hubertus Günther, Studien zum venezianischen Aufenthalt des SS in “Münchner Jahrbuch für bildende Kunst” 32, 1981, pp. 42.

Agostino de Musi detto VENEZIANO (Venezia 1490 ca. - Roma 1536/38)

Erede della grande tradizione del Raimondi è Agostino Musi cioè della famiglia de Masys o dè Musis detto Veneziano, appellativo che deriva dal nome della città dove ha luogo la sua formazione nello stile giorgionesco delle opere di Giulio Campagnola, di Jacopo dè Barbari e del Durer. Prima di giungere a Roma, Agostino soggiorna a Firenze dove traduce opere di Andrea del Sarto. A Roma nella bottega di Bavero di Carrocci detto il Baviera, Agostino risulta dal 1516 ca. fino al Sacco di Roma che costringerà Marcantonio alla fuga e causerà la morte di Marco Dente. Dopo il Sacco, è facilmente ipotizzabile un soggiorno del Veneziano a Firenze e a Mantova, dove traduce i modelli di Giulio Romano. Di ritorno a Roma già nel 1530/31, Agostino incide bellissimi Vasi antichi e moderni con gli Stemmi di Clemente VII de' Medici , all’insegna di quel decorativismo lineare che gli è proprio e con cui realizzerà opere dal vibrante colorismo alla bottega di Antonio Salamanca ,il primo dei grandi editori romani. Sono 181 le stampe che il Bartsch gli assegna, le cui date vanno dal 1509 al 1536; ad esse il Passavant aggiunge altri 7 soggetti(VI, pp.49-68)

Agostino de Musi detto VENEZIANO (Venezia 1490 ca. - Roma 1536/38)

Erede della grande tradizione del Raimondi è Agostino Musi cioè della famiglia de Masys o dè Musis detto Veneziano, appellativo che deriva dal nome della città dove ha luogo la sua formazione nello stile giorgionesco delle opere di Giulio Campagnola, di Jacopo dè Barbari e del Durer. Prima di giungere a Roma, Agostino soggiorna a Firenze dove traduce opere di Andrea del Sarto. A Roma nella bottega di Bavero di Carrocci detto il Baviera, Agostino risulta dal 1516 ca. fino al Sacco di Roma che costringerà Marcantonio alla fuga e causerà la morte di Marco Dente. Dopo il Sacco, è facilmente ipotizzabile un soggiorno del Veneziano a Firenze e a Mantova, dove traduce i modelli di Giulio Romano. Di ritorno a Roma già nel 1530/31, Agostino incide bellissimi Vasi antichi e moderni con gli Stemmi di Clemente VII de' Medici , all’insegna di quel decorativismo lineare che gli è proprio e con cui realizzerà opere dal vibrante colorismo alla bottega di Antonio Salamanca ,il primo dei grandi editori romani. Sono 181 le stampe che il Bartsch gli assegna, le cui date vanno dal 1509 al 1536; ad esse il Passavant aggiunge altri 7 soggetti(VI, pp.49-68)