I rinfreschi

Riferimento: S43519
Autore Carlo LASINIO
Anno: 1791 ca.
Misure: 365 x 295 mm
500,00 €

Riferimento: S43519
Autore Carlo LASINIO
Anno: 1791 ca.
Misure: 365 x 295 mm
500,00 €

Descrizione

Acquaforte, 1791/95, priva di firma ed indicazioni editoriali. Da un soggetto di Giuseppe Piattoli.

Bellissima prova, impressa su carta coeva, con margini, in ottimo stato di conservazione.

Tavola della serie Lo Sposalizio di Marfisa, una serie di 10 opere incise da Carlo Lasinio su disegno di Giuseppe Piattoli e pubblicate a Firenze dalla tipografia di Niccolò Pagni e Giuseppe Bardi.

Per la datazione delle stampe, sia Lazzaro che Scrase - analizzando gli esemplari conservati al Cantor Arts Center - propongono il 1790 basandosi, forse, sulla data della tavola intitolata “La buona notte”, l’unica in cui l’ultima cifra sembra essere uno zero. Tuttavia, l’assenza della serie di Marfisa nell’elenco delle opere in vendita in un altro Catalogo delle stampe incise in rame che si vendono in Firenze da Niccolò Pagni, e Giuseppe Bardi stampato a Firenze dopo il 1791, avvalora l’ipotesi di una datazione seguente a questa data poiché risulterebbe inconsueta la mancata promozione di una raccolta edita soltanto l’anno precedente. In un successivo catalogo della tipografia conservato nella Raccolta Bertarelli, troviamo citato “Lo sposalizio di Marfisa, o sia raccolta di Caricature diverse inventate da Giuseppe Piattoli in Num. 10 mezzi fogli imperiali, ed espresse a colori. Paoli 15”.

Le dieci incisioni - mai rilegate e prive di frontespizio - accompagnate da iscrizioni di titolazione e documentarie, costituiscono un vero e proprio poemetto figurato con i momenti chiave che preludono a un matrimonio alla moda settecentesca, i cui eleganti versi stridono, volutamente, con i personaggi grotteschi ai quali si riferiscono, accentuandone il carattere ridicolo.

La vasta letteratura satirica e burlesca di tradizione toscana, insieme alle poesie e canzoni popolari, ispirano certamente il Piattoli, al quale doveva essere nota la produzione del poeta Francesco Berni, vissuto due secoli prima, dal quale deriva il termine “bernesco” per definire un vero e proprio genere letterario, che ebbe numerosi imitatori e influenzerà anche la pittura caricaturale a cavallo tra Sei e Settecento. Altra fonte di ispirazione, fu il poema eroicomico, intitolato La Marfisa Bizzarra, composto da Carlo Gozzi tra il 1761 e il 1768, il quale offre al pubblico una stravagante versione del mondo epico-cavalleresco. Per quanto riguarda, invece, le fonti grafiche e pittoriche utilizzate dall’artista se ne possono suggerire molteplici e di diversa provenienza: quella anglosassone - soprattutto la famosa serie realizzata da William Hogarth, tra il 1743 e il 1745, dal titolo Mariage à la mode; quella veneta - motivi satirici e scherzosi del costume veneziano caratterizzano le incisioni di Giandomenico Tiepolo, che ritraggono scene di vita quotidiana; quella romana, dove l’abbondante produzione caricaturale di Pier Leone Ghezzi era all’epoca tra le più diffuse, e non ultima la tradizione toscana, i cui personaggi deformi saranno tra i soggetti preferiti della pittura di genere dal Cinquecento al Settecento.

Sarà però l’incisore lorenese Jacques Callot, arrivato nel 1611 a Firenze, a creare con i suoi ‘Gobbi’ una tipologia caricaturale che influenzerà non solo le opere di artisti a lui coevi come Stefano Della Bella e Baccio del Bianco, ma anche quelle del bresciano Faustino Bocchi e di Giovanni Domenico Ferretti, rievocanti in alcuni tratti le affascinanti grottesche di Gaetano Piccini, i cui personaggi - i cosiddetti caramogi - sono gli stessi che popolano Lo Sposalizio di Marfisa. Piattoli attinge, dunque, a piene mani da questi repertori traendo ispirazione soprattutto dai disegni di Baccio, nonostante siano tra quelli meno conosciuti poiché non tradotti in incisione.

Per il Piattoli le ‘Nozze di Marfisa’ non sono altro che il pretesto per deridere benevolmente l’ingenuo e coinvolgente sentimento amoroso della fanciulla desiderosa di percorrere tutte le fasi convenzionali che preludono al matrimonio, a cominciare proprio dalla “Scritta Matrimoniale”, che sancisce ufficialmente l’unione con l’amato bene e dove i protagonisti, rispettosi delle norme comportamentali richieste dalla circostanza e con un’espressione di serena ottusità, assistono alla stipula del proprio contratto di nozze alla presenza del notaio e di un nutrito gruppo di figure, tra assistenti, parenti e camerieri, peculiari di questo capitolo matrimoniale che troviamo spesso raffigurato in pittura.

Bibliografia

Angela Maria D’Amelio, “Lo sposalizio di Marfisa”. Una raccolta di caricature di Giuseppe Piattoli, in "Paragone", LXVI, Terza serie, Nr. 120 (781), Marzo 2015, pp. 50-60; Eighteenth-century Italian prints from the collection of Mr and Mrs Marcus S. Sopher with addictions from the Stanford University Museum of Art, catalogo della mostra a cura di C. Lazzaro, Stanford, 1980; D. Scrase, A sidelight on the artistic personality of Count Carlo Lasinio, in ‘Master Drawings’, XXI, 1983, pp. 32-36; A. Milano, The marriage of Marfisa. A Florentine series of prints from 1796, in ‘Signs. Studies in Graphic Narratives’, 1, aprile 2007.

Carlo LASINIO (Treviso 1759 - Pisa 1838)

Secondo quanto riferisce Federici, suo primo biografo, dopo aver studiato pittura all'Accademia di Venezia, si dedicò all'incisione, lavorando per breve tempo in patria. Verso il 1780 il Lasinio era già a Firenze, dove iniziò la sua fortunata carriera di incisore di riproduzione. Praticò tutte le tecniche tradizionali dell'incisione - bulino, acquaforte, maniera nera, incisione a contorno - e sperimentò con successo il rivoluzionario sistema di E. Dagoty-Le Blon, che prevedeva l'utilizzazione di lastre multiple inchiostrate con i colori rosso, giallo e azzurro che davano l'impressione dell'acquerello. Egli sperimentò a lungo tale tecnica - che già aveva interessato anche Bartolozzi - perfezionandola e combinandola con altre e ritoccando a mano col pennello alcune parti meno riuscite. Con questa tecnica, cromaticamente efficace, riprodusse la numerosa serie di acqueforti - più di 350 incisioni - degli autoritratti conservati agli Uffizi, Ritratti de' pittori esistenti nella Reale Galleria di Firenze…, pubblicata a partire dal 1789. Per gli editori fiorentini Niccolò Pagni e Giuseppe Bardi, realizzò immagini documentarie relative all'assedio di Mantova da parte dell'armata francese. Ancora per Bardi e Pagni nel 1796 uscì la raccolta di Costumi dei contadini di Toscana, nella quale l'artista, autore delle prime undici tavole, utilizzò il sistema detto à poupée, una sorta di tampone per ciascun colore. Nel 1800 un ritratto di Ferdinando III gli valse la nomina a maestro d'intaglio della Reale Accademia di Firenze. Nel 1806, visitando il Camposanto di Pisa con Giovanni Rosini, titolare della stamperia "Società letteraria", rimase impressionato dallo stato di abbandono e degrado in cui versava il monumento. Nell'occasione Rosini, che conosceva la sua abilità di incisore, gli propose di ritrarre gli affreschi che ornavano le pareti del Camposanto per farne una pubblicazione. L'opera fu avviata nel 1806, e nel dicembre del 1812 uscì la prima edizione, a cui, nel 1828, seguì la seconda. L'opera dal titolo "Pitture a fresco del Campo Santo di Pisa…", si compone di 40 tavole, che traducono in termini ormai preraffaelliti la sua riscoperta dei "primitivi" (Forlani, p. 8). L'anno successivo Maria Luigia di Borbone Spagna lo nominò conservatore del Camposanto di Pisa, carica che mantenne sino alla morte, con l'incarico di di sovrintendere al recupero, riordino e sistemazione delle opere dell'intero complesso, quindi alla trasformazione della raccolta in “museo pubblico” destinato alla memoria dell'arte e della cultura pisana.

Carlo LASINIO (Treviso 1759 - Pisa 1838)

Secondo quanto riferisce Federici, suo primo biografo, dopo aver studiato pittura all'Accademia di Venezia, si dedicò all'incisione, lavorando per breve tempo in patria. Verso il 1780 il Lasinio era già a Firenze, dove iniziò la sua fortunata carriera di incisore di riproduzione. Praticò tutte le tecniche tradizionali dell'incisione - bulino, acquaforte, maniera nera, incisione a contorno - e sperimentò con successo il rivoluzionario sistema di E. Dagoty-Le Blon, che prevedeva l'utilizzazione di lastre multiple inchiostrate con i colori rosso, giallo e azzurro che davano l'impressione dell'acquerello. Egli sperimentò a lungo tale tecnica - che già aveva interessato anche Bartolozzi - perfezionandola e combinandola con altre e ritoccando a mano col pennello alcune parti meno riuscite. Con questa tecnica, cromaticamente efficace, riprodusse la numerosa serie di acqueforti - più di 350 incisioni - degli autoritratti conservati agli Uffizi, Ritratti de' pittori esistenti nella Reale Galleria di Firenze…, pubblicata a partire dal 1789. Per gli editori fiorentini Niccolò Pagni e Giuseppe Bardi, realizzò immagini documentarie relative all'assedio di Mantova da parte dell'armata francese. Ancora per Bardi e Pagni nel 1796 uscì la raccolta di Costumi dei contadini di Toscana, nella quale l'artista, autore delle prime undici tavole, utilizzò il sistema detto à poupée, una sorta di tampone per ciascun colore. Nel 1800 un ritratto di Ferdinando III gli valse la nomina a maestro d'intaglio della Reale Accademia di Firenze. Nel 1806, visitando il Camposanto di Pisa con Giovanni Rosini, titolare della stamperia "Società letteraria", rimase impressionato dallo stato di abbandono e degrado in cui versava il monumento. Nell'occasione Rosini, che conosceva la sua abilità di incisore, gli propose di ritrarre gli affreschi che ornavano le pareti del Camposanto per farne una pubblicazione. L'opera fu avviata nel 1806, e nel dicembre del 1812 uscì la prima edizione, a cui, nel 1828, seguì la seconda. L'opera dal titolo "Pitture a fresco del Campo Santo di Pisa…", si compone di 40 tavole, che traducono in termini ormai preraffaelliti la sua riscoperta dei "primitivi" (Forlani, p. 8). L'anno successivo Maria Luigia di Borbone Spagna lo nominò conservatore del Camposanto di Pisa, carica che mantenne sino alla morte, con l'incarico di di sovrintendere al recupero, riordino e sistemazione delle opere dell'intero complesso, quindi alla trasformazione della raccolta in “museo pubblico” destinato alla memoria dell'arte e della cultura pisana.